Ciò che colpisce di primo acchito, malgrado il perfetto equilibrio delle proporzioni e dei ritmi, sia nelle massicce facciate o nelle imponenti sale di rappresentanza, nelle scalinate monumentali, negli immensi corridoi su cui s’aprono, da un lato e dall’altro, inquadrate da frontoni sostenuti da spessi pilastri, porte così maestose che paiono l’accesso a un tempio o a un tribunale, ciò che colpisce, dicevo, di primo acchito, è la dismisura dell’insieme, i soffitti tanto alti che se ne distingue appena l’ornamentazione peraltro ricercata, quasi fuor di vista, le prospettive che si perdono d’ogni lato in penombre brune e violette, morbidamente luminose, attraverso il dedalo delle anticamere, delle hall, dei passaggi segreti, delle gallerie a balaustrate.
Le parole che mi vengono in mente evocherebbero qualche remota epoca assirobabilonese in cui i palazzi parevano eretti per giganti, o da giganti per gli dèi. Ma un’altra qualità s’impone subito all’orecchio: il silenzio, un silenzio strabiliante, come sovrannaturale.